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Num. 23 del 29 agosto 2008

Editoriale: I Popolari Liberali sono pronti per la fase costituente del PDL

DARE CAZZOTTI ALLA LUNA NON SERVE. PREFERIAMO CONQUISTARE SUL CAMPO I GRADI DELLA BUONA POLITICA.

Uno degli sport preferiti di chi fa politica è parlare, discutere, analizzare, sezionare verbalmente fino all’inverosimile il tema di turno, che più tocca o appassiona. Il ‘rovello’ è così il pane quotidiano di questa contagiosa occupazione.

Trattasi di un esercizio utile nella misura in cui non diventa né esclusivo, né sterile e ripetitivo.

Di cazzotti dati alla luna, ritti in punta di piedi nella convinzione di picchiare più forte di tutti, sono pieni gli almanacchi della storia politica.

Ai nostri giorni, vista la geografia politica italiana, soprattutto ciò che accade nei due partiti di gran lunga più grandi, dare cazzotti alla luna non solo è platonico, ma rischia di essere frustrante.

La crisi del PD, che è contemporaneamente genetica e di sviluppo dell’elaborazione politica, se da un lato ci fa sicuramente piacere (poiché la difficoltà di un avversario ci galvanizza sempre), dall’altro insinua in tutti noi qualche preoccupazione (dato che l’irrobustirsi di una democrazia italiana adulta e compiuta è sempre stato uno dei nostri massimi obiettivi).

In altre parole, una democrazia compiuta non può camminare su una gamba ipertrofica, mentre l’altra è destinata ad atrofizzarsi.

Noi abbiamo bisogno di due partiti nazionali forti, democratici al loro interno, programmaticamente vivaci e distinti nella progettualità.

Quello di battere l’avversario per manifesta inferiorità o, peggio, per abbandono del campo, non è mai un epilogo augurabile, anzi rischia di annichilire le stesse difese immunitarie del competitore, che potrebbe abbassare oltremisura la guardia e vedersi seccare le sorgenti alle spalle.

Il nascituro PDL non può più, come ha fatto nella prima fase (quando l’avversario era in netto vantaggio), marcare a uomo il PD in modo rigidamente speculare. Ora, dopo la vittoria elettorale, ha il dovere di dedicarsi alla costruzione vera del partito “a prescindere”. E’ il PDL, se ha compreso fino in fondo il forte segnale di incoraggiamento degli elettori italiani, che dovrà trasformarsi nei confronti del PD da inseguitore a lepre. Per fare questo occorre mettere da parte i tatticismi di bottega, spesso di bassissimo profilo, e puntare al bersaglio grosso: la costituzione in tempi stretti di un grande partito trasparente, partecipato dal basso, pronto a selezionare per consenso, merito e professionalità la propria classe dirigente, ferreo nelle regole per le candidature. Soprattutto un partito che non si areni nelle secche del generico conservatorismo, ma punti decisamente ad incarnare anche in Italia il modello del PPE.

Certo, per i Popolari Liberali non è un momento facile, visto che, per la fase costituente, si ipotizza un metodo di gestione transitorio tutto a vantaggio dei partiti più grandi (FI ed AN).

Ma, se non vogliamo dare cazzotti alla luna, dobbiamo passare dal velleitarismo all’azione politica intelligente,mirata ed incisiva. Intanto esigendo, senza cedere di un millimetro, che i “tavoli” costituenti, a tutti i livelli, vedano la nostra partecipazione qualificata ed autonoma. Al riguardo non è accettabile farsi portare nei “tavoli” dal mecenate di turno. Infatti, è bene ricordarlo a tutti, i Popolari Liberali sono e saranno parte integrante della fase costituente come soggetto libero e distinto, quindi né in quota a FI né a carico di AN.

Nessuno in questa fase ci regalerà niente se non sapremo articolare sul territorio una forte e coraggiosa iniziativa politica che sia visibile come movimento facente capo a Carlo Giovanardi e, allo stesso tempo, come contributo alla costruzione del PDL.

Fra qualche mese avremo la grande opportunità di misurarci, anche in Toscana, nelle elezioni amministrative, che interesseranno centinaia di Comuni e tante Province. In alcune realtà ‘limite’ si potrà vincere o perdere per poche decine di voti. E’ bene ricordare agli amici del PDL che ‘premiare’ sul territorio chi, partendo dai valori democristiani di centro, è conosciuto e stimato diventa un valore aggiunto e vincente per battere il sistema di potere toscano.

Come sempre accade nei momenti difficili e nelle battaglie più aspre, i gradi della buona politica non vengono mai regalati, ma si conquistano sul campo.

Franco Banchi

La vedetta sul tetto: QUALI LAVORATORI NEI CONSIGLI D’AMMINISTRAZIONE?

Con questo numero de IL GIORNALE SETTIMANALE parte una nuova rubrica di diritto ed economia,curata da un giovane esperto e studioso del settore. Per una politica sempre più intrecciata con fattori complessi, spesso difficile da decifrare, ci sembra opportuno fornire ai nostri dirigenti ed a tutti i lettori uno strumento utile non solo per interpretare al meglio le novità nell’ambito giuridico – economico, ma per utilizzare concretamente questa ulteriore conoscenza in campo amministrativo e politico.

Era tipico delle antiche vedette stare sulle alture o nei posti più elevati, da cui potevano vedere più lontano degli altri. Stando sul tetto speriamo di intravedere qualche interessante anticipazione che possa essere utile a chi ci segue e fa politica.

Complice la calura agostana, che tradizionalmente facilita la riflessione, ed i molti seminari, forum e feste di partito che si sono tenute prima e durante l’ estate, l’argomento della partecipazione dei lavoratori agli organi amministrativi delle imprese è lentamente tornato al centro dell’attenzione mediatica.

Il tema, che nel corso degli ultimi mesi si è arricchito di forti accenti popolustici, come strumento per mitigare gli eccessi del capitalismo finanziario, non è certo nuovo, e già nel programma del Partito Democratico del febbraio 2008 vi si faceva riferimento (“…anche prevedendo la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio di Sorveglianza.”).

Il tema in oggetto si caratterizza per un contenuto fortemente tecnico-giuridico, ma come spesso accade il mondo politico lo ha ripreso in maniera piuttosto superficiale, attraverso slogan e frasi ad effetto, omettendo in particolare di indicare due elementi chiave per inquadrare il problema.

In primo luogo la generica formulazione di “lavoratori nei Consigli di Amministrazione” omette di indicare quali lavoratori debbano sedere nei Consigli di Amministrazione. La questione, che a noi sembra tuttaltro che bizantina, parte dalla constatazione dell’esistenza di un potenziale conflitto tra gli interessi della singola impresa e dei suoi dipendenti e quelli dell’intero settore di appartenenza.

In Germania, paese spesso preso a modello sul tema, detta dialettica si svolge nel Consiglio di Sorveglianza attraverso il contrasto tra i rappresentanti dei sindacati (che possono essere eletti tra persone esterne all’impresa) ed i rappresentanti dei lavoratori (che possono essere eletti solo tra i dipendenti dell’impresa). Mentre i primi perseguono logiche di categoria, i secondi sono concentrati esclusivamente sulle vicende interne alla loro impresa. Frequentemente i due gruppi hanno posizioni divergenti, in particolare sui temi relativi alla parte variabile delle retribuzioni, alla distribuzione/riallocazione geografica delle attività, ai metodi di lavoro.

In secondo luogo la maggior parte dei commentatori omette di indicare cosa questi rappresentanti debbano fare. Taluni gli attribuiscono capacità demiurgiche, altri li considerano una sorta di cane poliziotto sul comportamento dei managers, e soprattutto sul livello delle loro retribuzioni. Nella foga di fornire facili soluzioni a problemi complessi si attribuiscono a tre, cinque persone funzioni di controllo generale e onnipresente sullo svolgimento dell’attività aziendale, che ben difficilmete potranno essere svolte senza una precisa attribuzione di funzioni (alcune delle quali sono peraltro di competenza del Collegio dei Sindaci Revisori, delle Agenzie delle entrate, della Consob ed, ove necessario, della Magistratura…). Ne si capisce perché dette funzioni possano essere svolte da alcuni consiglieri solo in ragione della loro qualifica professionale e non possano essere svolte da chiunque sia eletto in un consiglio di amministrazione...

All’interno di questo dibattito è importante che come cattolici liberali, non ci facciamo trovare impreparati su un tema che coinvolge con tal forza la vita economica del paese. Dobbiamo infatti concentrare le nostra attenzione e la nostra analisi sui seguenti temi:

1) Concentrare la nostra attenzione sulle condizioni di accesso alla carica, onde evitare che il dibattito celi solo la volontà di creare l’ennesimo cimitero degli elefanti, attraverso il quale collocare ex sindacalisti ed ex amministratori pubblici in posizioni di rendita (la recente pubblicistica (tra gli altri: L’altra Casta, ed. Bompiani 2008; La Casta Ed. Rizzoli 2008) segnala che queste funzioni sono già egregiamente svolte dalle società ex municipalizzate e dalle altre holding di partecipazione pubblica…).

2) Tenere sempre presente come ogni eventuale novella dell’attuale disciplina societaria non potrà che intersecarsi con l’insieme delle relazioni industriali, rilevanza della contrattazione nazionale, possibilità di modificare a livello di singola impresa tempi e condizioni di lavoro e composizione del salario. Ovviamente prevedere detta partecipazione dei lavoratori nei Consigli di Amministrazione, lasciando immutata la possibilità di influire sull’attivitità dell’impresa, e sulle connesse dinamiche retributive, rischierebbe di trasformare i neo consiglieri in commissari del popolo, impossibilitati a svolgere ogni qualsivoglia tipo di rappresentanza delle dinamiche interne all’impresa ed ai suoi lavoratori, ma destinati semplicemente ad essere “più uguali degli altri”(George Orwell, La fattoria degli Animali) per i frequenti contatti con l’alta dirigenza aziendale (si veda sul tema lo scandalo relativo ai rappresentanti dei lavoratori della Volkswagen).

3) Concentrare la nostra attenzione sull’organicità di ogni novella della disciplina attuale, evitando che tutto venga rimandato all’autonomia statutaria delle singole imprese. Se ci deve essere una legge essa deve essere chiara e lasciare poco spazio all’autonomia privata, altrimenti si rischia di creare l’ennesima giungla, con società arcigne e società compiacenti, quest’ultime tanto più diffuse quanto più legate al mondo politico o tentate da facili baratti tra pubblica benevolenza e trattamento dei lavoratori (basti pensare alle società che operano in concessione, a quelle a controllo pubblico…).

Al mercato finanziario ed ai consumatori non serve infatti la creazione dell’ennesima anomalia italiana…

E. Buddenbrook

Focus

A 32 anni dallo storico Convegno di Pozzo della Chiana con Don Giussani Mazzerelli torna a Foiano

SEGUIRE DON LORENZO MILANI “CROCE” MERAVIGLIOSA

Una riflessione preziosa per i cristiani impegnati in politica. Relazione di franco Banchi

Proprio a Foiano della Chiana, il prof. Alessandro Mazzerelli ha presentato il suo libro Ho seguito Don Lorenzo Milani profeta della terza via.

L’incontro con Milani arrivò nella metà degli anni ‘60 quando Mazzerelli, già impegnato in politica, fondò un’associazione distaccata dal Psi. Da qui Alessandro trovò subito feeling con il parroco di Barbiana e da qui comprese immediatamente la grandezza di un uomo, vero servitore della chiesa.

L’autore apre uno spaccato insolito sulla vita di Don Milani, ne riscopre i desideri, i sogni, l’impegno culturale e sociale ricollocandolo come uomo di fede vera e non come partigiano di sinistra. Proprio questo il centro dell’incontro e del volume di Mazzerelli, il quale ha conosciuto di persona il parroco di Barbiana. Negli anni, cavalcando l’onda dell’ignoranza, la sinistra italiana si è appropriata illegittimamente di un’importante figura come quella di Don Milani. Proprio l’ignoranza diffusa, prorompente ed effimera, ha spostato verso sinistra la figura di questo grande parroco morto da vero sacerdote.

Pare bizzarro ma proprio la sfida che il parroco di Barbiana aveva lanciato contro l’ignoranza è divenuta l’arma di chi ha voluto mistificare la sua figura ed il suo impegno. Dal lontano 31 Luglio del 1966, Mazzerelli, ha intrapreso un rapporto con il parroco di Barbiana al quale è rimasto fedele tutta la vita. Infatti, Alessandro, ha sempre combattuto per raccontare la verità su Don Milani che “ è stato fatto diventare – spiegava il professore -il capostipite di quella porcheria che è il cattocomunismo”.

E pensare che tutta la sua opera educativa fu fatta per sottrarre i poveri all'influsso nefasto del comunismo». Mazzerelli non indietreggia di un passo riportando alcuni frammenti dei discorsi di Don Milani che vedeva il comunismo come “la mediazione e l'organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire, a una classe dirigente parassitaria e brutale, la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi”. E ancora “I capi del comunismo affermano che la loro ideologia viene da lontano e andrà lontano. Non è vero. Il comunismo viene da pochi decenni di storia e va avanti strisciando e speculando tra le innumerevoli miserie della terra. Dove è al potere ne lenisce qualcuna e ne fa nascere altre, ma di questo fallimento riesce a imporre che solo pochi ne parlino. Anche i serpi strisciano rapidamente, si ambientano alle asprezze del terreno, le superano ed attaccano per difendere le loro zone di influenza, ma non vanno lontani”.

Dal volume di Mazzerelli si apre,anche, una finestra sulla Dc del tempo vista con rabbia e rammarico dato “ che la sua politica buttava i poveri nelle mani del Pci. Non si rendono conto che rubando da cristiani fanno un gran regalo ai comunisti”.

La passione di insegnare ai poveri era data anche dalla voglia e dal desiderio di non lasciare spazio all’ignoranza che avrebbe permesso al pensiero comunista di ingoiare come un serpente questi giovani. Mazzerelli coglie l’occasione per riportare alcuni pensieri del parroco di Barbiana molto attento alla vita sociale, alla vita politica e al mutarsi delle mentalità. Particolare attenzione fu destinata alla battaglia per il divorzio: “la Chiesa e tutti i cattolici- spiegava Don Milani- hanno l'obbligo di difendere il sacramento indissolubile del matrimonio. Noi dobbiamo batterci, con estrema risolutezza contro qualsiasi ingerenza dello Stato nel matrimonio cattolico. Il suo eventuale scioglimento non può essere che competenza esclusiva della Chiesa». E poco più avanti ecco alcune affermazioni che oggi suonano come una terribile profezia: «La gestione del potere da parte di certi cattolici non vuol dire che sono salvaguardati i valori della società cristiana. La gestione degli interessi delle classi benestanti porta prima o poi tutto un popolo a prostituirsi alla loro etica, di cui il divorzio, l'infedeltà coniugale, la droga, l'aborto, la sopraffazione economica e politica del prossimo sono gli aspetti più qualificanti. Sarà quello il momento giusto in cui si dovrà proclamare senza indugi le nostre tesi. Ma non farti illusioni, prima che le masse si accorgano che abbiamo ragione scorrerà molto sangue e sia la degenerazione morale che quella politica arriveranno a livelli di incredibile bassezza”.

«Fu per far conoscere l'immagine vera del priore - prosegue Mazzerelli - che nel 1976 organizzai un convegno su di lui a Pozzo della Chiana. E fu padre Santilli, maestro di don Milani in seminario e sempre suo grande amico, a suggerirmi di invitare don Luigi Giussani.

"Ma uno come don Giussani- gli dissi - verrà mai in un buco come Pozzo della Chiana?".

"Per questa interpretazione di don Milani, che è quella vera, corro" fu la risposta che mi riferì padre Santilli. Don Giussani venne e svolse una relazione sul contesto sociale e politico di allora.

Di quell'intervento sembra non essere rimasto nulla, a parte un breve resoconto sull'Osservatore romano, secondo il quale Giussani indicò nel recupero del senso religioso e dell'autentico senso ecclesiale come liberazione di tutto l'uomo l'unica alternativa alla "persecuzione dell'umano". Quel convegno, in pratica, fu silenziato. «Era ormai in corso l'appropriazione del priore di Barbiana da parte del Pci, sotto la regia di Michele Gesualdi, uno dei suoi alunni, che su questa operazione ha costruito la propria carriera politica (è stato tra l'altro due volte presidente della Provincia di Firenze). È lui che ha il suo carteggio, che decide cosa viene pubblicato e cosa no» («se non ha distrutto o lasciato ai topi le casse di Barbiana», puntualizza Giorgio Pecorini in Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi 1996). È Gesualdi che oggi guida la Fondazione Don Lorenzo Milani, custode dell'ortodossia barbianese e della retorica a cui si abbeverano i Fioroni, i Veltroni e i Bertinotti.

Ma Alessandro Mazzerelli prosegue indefesso la sua battaglia per un altro don Milani: «"Tu non mi tradire, non mi tradire ne ora ne mai"- ripeteva il priore ad Alessandro negli ultimi tempi. “ A questo – prosegue l’autore - da quarant'anni sono rimasto fedele. Ho rinunciato a far carriera, non ho guadagnato nulla, ci ho sempre rimesso di tasca mia. O so' grullo, o quel che dico è vero». Mazzarelli ebbe anche l’onore di stendere con Don Milani “il decalogo del politico” al quale è sempre rimasto fedele e nel quale, al primo punto, era previsto il divieto di ricoprire più di una carica pubblica. Mazzerelli offre uno spunto di riflessione importante sulla vita del parroco, raccogliendone il pensiero, le opere e la fede, regalando una versione reale di un Don Milani poco conosciuto. Il resto non rimane che scoprirlo da soli in Ho seguito Don Lorenzo Milani profeta della terza via, ed. “ Il Cerchio”, Rimini 2007.

Antonio Degl’Innocenti